Il gruppo museale Smithsonian di Washington Dc è il più grande al mondo (19 musei) e non ha eguali. E’ in continuo divenire e l’ultima strabiliante aggiunta è del settembre 2016: si tratta del nuovo Museo Nazionale della Storia e della Cultura Afro-Americana.
La struttura del museo è stata progettata dall’architetto britannico di origini tanzaniane David Adjaye e si trova sul National Mall, il grande prato longitudinale che si estende per tre chilometri al centro della città, dal Campidoglio al Lincoln Memorial, e su cui si affacciano anche gli altri grandi musei nazionali. Davanti a dove si trova adesso il museo, in un giorno del 1963 si affollarono 200.000 persone per ascoltare Martin Luther King che dal Lincoln Memorial tenne il discorso famoso con la frase “I have a dream”. La creazione del museo è stata raccontata e discussa molto estesamente sui media americani nelle scorse settimane, ed è considerata un necessario e dovuto completamento al modo con cui le istituzioni nazionali raccontano la storia degli Stati Uniti nella capitale, soprattutto in tempi in cui le discriminazioni pratiche e culturali degli afroamericani nel passato e nel presente sono di nuovo molto di attualità: più che un completamento, quindi, una scelta di grande importanza nell’incompleta storia dell’integrazione.
Sui cinque piani di esposizioni, tre dei quali interrati, la storia e la cultura afroamericane vengono raccontate cronologicamente: si inizia con la schiavitù in Africa, si tratta il 1968 come anno di svolta e si arriva a oggi con i movimenti di protesta recenti contro la violenza sui neri.
All’esterno, il museo e le sue pareti scure sono diversi dagli altri monumenti del complesso, tutti in stile neoclassico e con superfici chiare. La sagoma del National Museum of African American History and Culture è ispirata al disegno di elementi formali Yoruba (un gruppo etnico-linguistico diffuso nell’Africa occidentale.
Dall’inizio dei lavori a oggi sono stati spesi 540 milioni di dollari, metà dei quali raccolti attraverso finanziamenti privati e i restanti provenienti da fondi federali.
I tre piani interrati, raggiungibili con gli ascensori o le rampe a spirale, sono la parte più storica, quella dove sono contenuti gli oggetti più emotivamente forti, come il collare da schiavo di dimensioni così piccole da essere stato certamente utilizzato per un bambino, il documento di vendita di una ragazzina di dieci anni e dei figli che avrebbe generato, o la bara che aveva accolto il corpo di Emmett Till, un ragazzo di 14 anni torturato e ucciso in Mississippi nel 1955 per aver forse flirtato con una donna bianca.
L’atmosfera si fa meno dolorosa ai piani superiori, dove iniziano a comparire pannelli multimediali e la storia viene raccontata attraverso le vite di personaggi importanti come Angela Davis, o da oggetti di culto come il cappello di Michael Jackson o la Cadillac rosso ciliegia di Chuck Berry. Oltre alla politica e alle organizzazioni rivoluzionarie come le Pantere Nere, si racconta anche la cultura pop attraverso la ricostruzione di un set dell’Oprah Winfrey Show, il famoso talkshow di Winfrey, andato in onda dal 1986 al 2011 (la stessa Winfrey ha finanziato il museo con 21 milioni di dollari). L’esposizione si fa sempre più concentrata, arrivando alla galleria “Comunità” dedicata in gran parte alla presenza afroamericana in ambito militare e sportivo. Qui è esposto il biplano guidato nella seconda guerra mondiale dai Tuskegee Airmen, un reparto dell’esercito statunitense .
Nella parte più alta del museo, si entra nella Hollywood “nera” con testimonianze, filmati, musiche s pezzoni tratti dalle piu grandi interpretazioni di attori, registi, ballerini di colore, per poi passare alla parte degli eroi sportivi, da Michael Jordan a Bolt, acclamati tra cori gospel nella varie sale.
Un’esperienza che da sola vale il viaggio a Washington D.C.
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